Catania, semilibertà a un ultrà condannato per la morte di Raciti: per la vedova è una sconfitta
Concessa la semiliberta' a Daniele Natale Micale, 30 anni, uno dei due ultra' del Catania condannati per la morte dell'ispettore della polizia Filippo Raciti, il 2 febbraio 2007, allo stadio Massimino, durante il derby col Palermo. Micale assieme all'allora minorenne Antonino Speziale. Micale, nel novembre del 2012, era stato condannato definitivamente a 11 anni di reclusione per omicidio preterintenzionale. Ha gia' scontato oltre meta' della condanna in carcere a Catania, ed ha un residuo pena di meno di 4 anni.
A Micale e' stato concesso di uscire dal carcere al mattino per andare a lavorare per poi rientrare la sera. Trascorre la notte, invece, in prigione. Il Tribunale ha ritenuto di concedere la semiliberta' nell'ottica "del graduale reinserimento sociale" al fine di consentire a Micale di svolgere attivita' lavorativa come dipendente di un supermercato, ritenendo sussistano i presupposti per la concessione del beneficio: Micale ha scontato oltre la meta' della pena, fruisce regolarmente di permessi premi e da alcuni mesi e' ammesso al lavoro esterno e ha svolto anche volontariato all'esterno del carcere. Inoltre, sottolineano i giudici, non ha precedenti ne' carichi pendenti e le neutre informazioni di Ps fanno ritenere che non sussistano attuali collegamenti con la criminalita' organizzata. Resta ancora in carcere, invece Antonino Speziale, condannato a 8 anni per lo stesso reato, all'epoca dei fatti minorenne.
"Avverto il dolore della sconfitta, ma è la legge. Appena ho saputo ho sentito come un peso, maggiore amarezza e ingiustizia. Accetto la legge, ma non è giusto, il mio calvario continua: chi è condannato deve scontare tutta la condanna, altrimenti non c'è certezza della pena". Così, all'Ansa, Marisa Grasso, vedova dell'ispettore Filippo Raciti sulla concessione della semilibertà a Daniele Micale, uno dei due ultrà condannati per la morte del poliziotto da parte del Tribunale di sorveglianza di Catania.
"Sono entrata in un'aula di giustizia - aggiunge Marisa Grasso - cercando giustizia. Sono uscita da un incubo con una verità, una sentenza. Era importante per me, la famiglia e per tutti i poliziotti che rischiano la vita, come ha fatto mio marito. Sono orgogliosa di lui e della sua divisa, ma oggi sento amarezza e non giustizia". La vedova dell'ispettore Raciti rivela di "avere ricevuto stamattina decine e decine di telefonate di colleghi" di suo marito. "Anche loro - svela - amareggiati e delusi, hanno voluto condividere con me la loro amarezza. Da cittadina dico che una condanna deve essere eseguita e una sentenza rispettata. Altrimenti si rischia di fare perdere la fiducia nella giustizia". "Adesso - si interroga - come farò a dire a mio figlio, che aveva sei anni quando è avvenuta la tragedia, che può incontrare per strada uno delle due persone condannate per la morte di suo padre, che è in permesso, invece di stare in carcere? Capirà che è la legge? Ma è giusta questa legge? Io mi sento sconfitta".