Stragi, il pm di Caltanissetta chiede l'ergastolo per Matteo Messina Denaro
Se Totò Riina è stato l'ideatore delle stragi del '92, il boss latitante Matteo Messina Denaro è l'uomo che ha determinato all'interno di Cosa nostra un clima di unanimità senza il quale il Capo dei capi non avrebbe potuto portare avanti i suoi piani, se non a rischio di una guerra di mafia. Ne è convinto il pm di Caltanissetta, Gabriele Paci, che al termine della requisitoria sul processo che vede imputato il boss di Castelvetrano come uno dei mandanti delle stragi di Capaci e via D'Amelio, ha chiesto l'ergastolo per Messina Denaro. La richiesta arriva due giorni prima dell'anniversario dell'eccidio in cui persero la vita Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta, mentre il presidente della Commissione regionale antimafia, Claudio Fava, lancia un appello affinché si ponga fine alla "liturgia delle commemorazioni". Il figlio di Giuseppe Fava, ucciso dalla mafia il 5 gennaio 1984, va oltre: "Dipendesse da me - dice all'ANSA - abolirei per decreto la definizione di 'familiari vittime della mafia'. Non noi, ma l'intero Paese è orfano di chi ha perso la vita per affermare la giustizia". E lancia l'invito a "seppellire i morti, una volta per tutte, come ci insegna Antigone". Ventotto anni dopo le stragi che annichilirono il Paese, l'Italia rincorre ancora la verità su quel periodo "maledetto", come lo definisce Paci: "Non è sostenibile - spiega - che Totò Riina avrebbe comunque intrapreso quella strada senza avere il consenso di Cosa nostra, perché se ci fosse stato il dissenso di una delle province ci sarebbe stata una guerra. La storia di quegli anni non sarebbe stata la stessa. Messina Denaro non può aver prestato consenso con riserva. Fu lui più di tutti l'uomo che aiutò Riina a stroncare sul nascere le voci del dissenso interno". Per quanto Fava non parli da un'aula di giustizia, anche le sue parole reclamano un impegno collettivo per la verità: "Dobbiamo pensare - dice - a come vissero Falcone, Borsellino e tutti coloro che persero la vita nella lotta contro la mafia e perché furono uccisi. Invece, si finisce per trattare la morte come se fosse l'unico dato di esistenza delle vittime. Lo si fa il 23 maggio, il 19 luglio, il 5 gennaio, il 6 agosto. Credetemi, non fa differenza". E in forma di preghiera afferma: "Liberaci dalle interviste ai 'parenti delle vittime' (come se gli altri fossero solo forestieri). Liberaci dall'antimafia stampata sui biglietti da visita (giornalisti antimafiosi, sindaci antimafiosi, giudici antimafiosi). Seppelliamo i morti, una volta per tutte. E togliamoci il lutto, per piacere. E affrontiamo la vita". Fava, che ha maturato questa posizione "nel corso degli ultimi anni, quando ho percepito di sentirmi distante dalla solita liturgia", non prende parte neanche alla commemorazione davanti alla lapide che ricorda il padre: "Lo ricordo ogni giorno, non ho certo bisogno di queste ricorrenze". E dice basta "alle parole fragorose, pronunciate davanti a bambini festanti, ai sostantivi ripetuti ad ogni occasione: eroe, legalità. Parole per salottino televisivo, usate per fare audience". L'unico modo per "essere degni di quei morti è stare dentro la vita; prendere schiaffi, e restituirli; rischiare la pelle (se proprio è necessario) ma senza rimirarsi allo specchio, dirsi peccatori. Sono sicuro che Paolo Borsellino, e tutti gli altri, lo apprezzeranno", conclude.