Acate, l'ingegnere scambiato per un tedesco dagli Alleati: Vincenzo Carrubba, classe 1923
Lo scorso 8 novembre ha compiuto 101 anni. A quanto pare, tra gli uomini, è l’acatese più longevo di tutti i tempi (tra le donne invece Concetta Noto taglierà il traguardo delle 107 primavere), ma non vive nel paese più a occidente della provincia di Ragusa bensì a Siracusa. L’ingegnere Vincenzo Carrubba vi risiede dal 1958, ma non ha mai reciso quel legame con l’ex feudo dei principi di Biscari, anzi la sua straordinaria memoria lo continua ad alimentare.
“Quando sono nato, nel 1923, – la denominazione del paese non era stata ancora mutata in Acate e contava poco più di cinquemila abitanti. Essi erano quasi tutti occupati a lavorare le terre dei Paternò Castello o vivevano grazie ai mestieri artigianali. Pochi fortunati erano i giovani che potevano studiare e sognare un futuro diverso. Oggi la mia cittadina conta oltre diecimila abitanti e per me è piena di ricordi indimenticabili che si riferiscono alla mia vita, ai luoghi, alla storia e alle feste religiose”.
*Un archivio vivente dunque. Ma come si sente?
“Il peso più grande è quello degli anni, dovrei essere soffocato da questo carico, ma mi sento libero e tranquillo. Tutte le mie facoltà sono ancora vive e soprattutto la capacità di ricordare il passato è ancora integra. La mia giornata è fatta di lunghe passeggiate, letture, televisione, partite a scacchi con nipoti e pronipoti, ne ho quattordici, nati dai miei tre figli”.
*Della scuola elementare che ricordi ha?
“Ad Acate negli Anni venti non esisteva un istituto scolastico unico e le lezioni della scuola elementare venivano impartite in diverse case prese in affitto. Nel 1930, al termine di varie vicissitudini tra cui un incidente su lavoro, fu completato l’edificio di via Duca D’Aosta con tutte le aule sufficienti per contenere tutti gli alunni delle cinque classi elementari. Lì iniziai e completai il mio primo corso di studi”.
*Senza le comodità di oggi come si viveva?
“Nelle case fino alla metà degli Anni cinquanta mancava l’acqua corrente e quella potabile. Per tutti gli usi essa veniva prelevata dal lavatoio del Canale, che era alimentato dall’acqua del fiume Dirillo e distava poca strada dal paese. Era una sorta di capannone in muratura che conteneva una decina di vasche utilizzate per lavare i panni. Alcune donne, le lavandaie, lavavano la propria biancheria e quella delle famiglie abbienti del paese. Il servizio funzionava egregiamente anche perché le donne oltre a lavare i panni, li stendevano al sole e li consegnavano asciutti agli affidatari. Ovviamente non tutti gli abitanti del paese avevano la possibilità di portare a casa l’acqua del Canale e quindi alcune persone, attrezzate con un asino e alcuni recipienti di argilla, andavano a prelevarla e la vendevano a chi ne aveva bisogno.
La situazione cambiò quando il Comune comprò la sorgente Muti, nei pressi di Chiaramonte Gulfi, e con una grossa tubazione interrata poté portarla in un capiente serbatoio posto nel punto più alto dell’abitato, rifornendo tutte le case. Purtroppo a quel tempo non c’era neanche la fognatura. E come si sopperiva a tale mancanza? Ogni mattina passava per le strade del paese un carro trainato da un asino e munito di una botte. Il carro era guidato da una persona che raccoglieva i vasi da notte e ne versava il contenuto nella botte. Quando si riempiva le deiezioni errano utilizzate in campagna come concime naturale”.
*Ogni anziano acatese conserva i ricordi della Seconda guerra mondiale. I suoi?
“Per noi iniziò solo con lo sbarco alleato in Sicilia del 9-10 luglio. Prima di quella data pensavamo che fosse qualcosa che non ci riguardasse. Ricordo che dalla piazza prospiciente la chiesa di San Vincenzo dove la costa in certe giornate sembra vicinissima, guardavamo i paracadutisti americani che si staccavano dagli aerei e lentamente scendevano a terra, mentre a Macconi, dalle navi sbarcavano soldati, carri armati, un enorme esercito, senza incontrare nessuna resistenza. Non c’erano i tedeschi perché si aspettavano lo sbarco da tutt’altra parte. Gli aerei degli alleati lanciarono delle bombe sul paese, una cadde di fronte alla nostra abitazione, che subì solo danni, mentre nella casa di fronte alla nostra ci fu una strage.
L’indomani decidemmo di chiudere la casa e insieme a nostri parenti di abbandonarla per recarci in campagna, in contrada Piano Torre. Mentre camminavamo, incontrammo un gruppo di paracadutisti americani, sei, che dovevano riunirsi con i commilitoni, i quali ci fermarono. Io notai che uno di loro mi guardava intensamente e che a un certo punto, indicandomi con un dito, disse: “Chillu è germanisi”.
Io avevo 19 anni, i miei capelli biondi li avevano indotti a credere che ero un tedesco disertore che si era travestito da siciliano. Sapevo che un mio compagno, Giovanni Terranova, con le mie stesse fattezze, creduto “germanisi”, era scappato per paura e fu ucciso. Ho cercato allora di spiegargli che non ero un tedesco, gli mostravo i miei genitori, mia sorella che mi assomigliava, ma il dito puntato contro di me era sempre fermo. Per fortuna in quel momento un proiettile, lanciato dal carro armato tedesco che si trovava ai Quattro Canti, esplose nelle vicinanze inducendo i paracadutisti, atterriti, ad andare via dalla zona. Così scampai alla morte”.
*Ingegnere, il suo percorso scolastico, dopo le elementari, come tanti a quel tempo, fu tormentato.
“All’epoca dello sbarco avevo già conseguito la licenza liceale classica. Il profitto scolastico era stato lusinghiero, ma per frequentare le lezioni occorrevano enormi sacrifici. Ad Acate non c’era il ginnasio e quindi mi sono dovuto trasferire a Vittoria. Non esisteva un mezzo che mi ci portasse ogni mattina e allora fui costretto ad abitare in una pensione. Finito il ginnasio ho frequentato il liceo classico a Gela, anche questa città non era collegata bene ad Acate, e quindi ancora una volta sono stato costretto a stare in una pensione. Dopo la maturità decisi, di concerto con miei genitori, di intraprendere gli studi di ingegneria, scegliendo come sede il Politecnico di Torino, Le Ferrovie dello Stato funzionavano bene e si viaggiava comodamente, però c’erano tutti i disagi causati dalla guerra in corso.
A Torino completai l’iscrizione al primo corso di Ingegneria, ma purtroppo non era possibile frequentare le lezioni perché, a causa dei bombardamenti effettuati dagli aerei francesi, ero costretto a trascorrere intere giornate nei rifugi antiaerei. Decisi quindi di trasferirmi all’Università Catania, anche se c’era solo il biennio di Ingegneria. Finito il biennio e perdurando la guerra, mi dovetti trasferire, per il terzo anno all’Università di Palermo. La guerra nel frattempo era finita ma non era possibile intraprendere un viaggio verso il Piemonte o la Lombardia data la inefficienza di tutta la rete ferroviaria praticamente semidistrutta. Nel novembre del 1946, affrontando mille disagi, mi recai a Milano dopo un viaggio dalla stazione di Vittoria a quella lombarda, che durò una settimana. Trovai alloggio alla Casa dello Studente e quindi potei frequentare il Politecnico.
Nel luglio del 1949, finalmente, superati tutti gli esami, ottenni la laurea in Ingegneria Industriale, sezione Elettrotecnica”.
*A questo punto iniziò la ricerca di un’occupazione.
“Con la laurea in tasca dovevo trovare un posto di lavoro, cosa in quel periodo assai difficile con un’Italia in pieno rivolgimento sociale, stremata alla fine della guerra, mi accontentai di trovare incarichi temporanei. A quel tempo si cominciava a lavorare la resina. Tra le mie realizzazioni ricordo di avere progettato e fatto costruire una pompa centrifuga, un riempiflacone per detersivi in materiale resistente agli acidi. Finalmente nel 1951, accolta la domanda, ebbi la possibilità di essere assunto all’Alfa Romeo, dove lavorai per circa sei anni”.
*Come mai non vi rimase?
“Durante le ferie estive del 1958 mi recai in Sicilia insieme alla mia famiglia, moglie e figli, per trascorrere alcuni giorni assieme ai miei genitori nella mia amata Acate. Mi informarono che a Priolo, vicino Siracusa, stava sorgendo un grosso stabilimento petrolchimico, la SINCAT. Sono andato a vederlo e mi comunicarono che la direzione generale era a Milano presso la Edison. Al ritorno a Milano, spinto dal desiderio di ritornare in Sicilia tra tutti i miei parenti, feci la richiesta di assunzione e dopo un colloquio col direttore fui assunto per andare a lavorare presso lo stabilimento di Priolo. Mi licenziai dall’Alfa Romeo e, trascorso un periodo presso la direzione della Edison, mi trasferii allo stabilimento di Priolo dove rimasi per 22 anni. Sono orgoglioso di avere fatto assumere a lavorare alla SINCAT diversi acatesi, alcuni parenti e altri non parenti, e di avere contribuito a risollevare il loro tenore di vita. Lasciai la SINCAT, divenuta nel frattempo Montedison, e creai un’impresa per la progettazione e la posa in opera di impianti di riscaldamento. Quest’ultimo lavoro mi tenne impegnato fino all’età di 77 anni”.
Emanuele Ferrera